Sulle tracce di Nessuno

Sulle Tracce di Nessuno è un progetto fotografico (ancora in fase di realizzazione) che ho iniziato nel 2010, sulle saline trapanesi.

Attraverso questo reportage desidero raccontare la progressiva scomparsa dell’uomo “salinaio” dalle saline trapanesi, sostituito da macchine e Bobcat: nel 2010 i salinai attivi erano sette, oggi ne resta solo uno.

In un paesaggio che appare alieno, l’assenza (o comunque la sporadica presenza umana) veicola una presa di coscienza di quanto la continua tensione al progresso e alla realizzazione dell’uomo, porti al suo stesso annichilimento fisico, alla sua vera e propria scomparsa dalla faccia della Terra.

Di seguito il testo critico redatto dal Prof. Renato Lo Schiavo, che ringrazio di cuore.


Correvano gli sgoccioli dell’ottocento quando lo scrittore vittoriano
Samuel Butler venne in Sicilia per sfatare uno dei luoghi comuni più radicati nel mondo accademico, l’idea che l’Odissea fosse opera di un (più o meno) vecchio cantore e riflettesse il mondo greco (più o meno) centrorientale.

Già un quarto di secolo prima Butler era approdato in un’altra isola semiselvaggia, per di più sita dall’altra parte del mondo ed in un altro emisfero, la Nuova Zelanda. Fattosi allevatore di pecore, aveva avuto modo di vivere una vita a metà strada fra l’avventura di esplorazioni in plaghe pressoché deserte e la sedentarietà creativa, dividendosi tra pittura, musica e letteratura via maestra per l’inferno, lo ammoniva il padre, canonico di Langar e figlio del celebre vescovo di Lichfield.

Quelli erano gli anni delle prime, infuocate, battaglie a proposito della teoria dell’evoluzione e Butler, non foss’altro che per gustare il piacere della trasgressione alle idee correnti da una parte e dall’altra (Charles Darwin, da giovane, aveva frequentato proprio la scuola diretta dal suo nonno vescovo), ci si buttò a capofitto, fino a sviluppare una sua personale visione dell’evoluzione, in cui le macchine rivestono un ruolo fondamentale ed anzi possono essere ritenute il sistema di sviluppo attraverso cui l’organismo umano si sta perfezionando: non per niente ormai (scriveva Butler nel 1872) membra complementari come occhiali e ombrello sono molto più utili dei baffi…

Presagendo che l’uomo sarebbe diventato servo delle macchine, anzi esattamente come gli insetti sono per molte piante – il loro intermediario riproduttivo, e dando per assodato che l’uomo ormai pensi come pensa e provi le sensazioni che prova per influsso e azione delle macchine su di lui, e che la loro esistenza sia condizione sine qua non della sua, il partito antimacchinista dell’immaginario paese di Erewhon (trasparente rovescio di Nowhere), riuscì a farle bandire.

A chi diceva che l’influenza morale dell’uomo sarebbe bastata a dominare le macchine, si controbatteva che non sembrava prudente contare molto sul senso morale di qualsiasi macchina, tanto più che ormai la differenza fra le rispettive vite era solo di livello piuttosto che di specie. Vessillo distintivo dell’altro schieramento, l’uso invalso di classificare gli uomini secondo i loro cavalli vapore, procedimento che ancor oggi (basta sostituire la parola ‘BIT’ a ‘Cavalli Vapore’)rende di plastica evidenza duevogliamo chiamarli fatti?

1) Solo i milionari posseggono l’intera serie di membra complementari di cui l’uomo può fornirsi;

2) Il vecchio nemico filosofico, la materia, stringe ancora la gola del povero e lo strangola. Ma per il ricco la materia è immateriale; l’organizzazione perfezionata del suo sistema extracorporale ha liberato la sua anima. E con l’anima libera si può fare ciò che si vuole…

In Sicilia Butler era giunto per cercare sul campo tracce non tanto del passaggio di Ulisse – l’avevano già fatto in tanti, nei millenni intercorsi – quanto evidenze topografiche che quelli fossero i luoghi familiari a chi dell’Odissea era autore.
Venne, esplorò, tornò e ritornò, conobbe e lasciò una splendida testimonianza della sua avventura nelle decine di fotografie scattate fra la gente del popolo e gli angoli più reconditi dell
’isola, in particolare della zona del trapanese, epicentro delle sue scorribande (le foto sono state riproposte fra il 2005 e il 2019 in alcune esposizioni ad esse dedicate).

Centotrenta anni dopo, laddove decine di operai cotti dal sole e bruciati dal sale dimostravano quotidianamente come si facesse a oltrepassare i limiti della loro insignificante (in termini di cavalli vapore) costituzione corporea, dove gli infraquattordicenni sconvolgevano le logiche aritmetiche guadagnando in tre quello che veniva dato a due adulti (ed infatti li si chiamava con l’equivalente

siculo di “tre per due”) e la saggia ignavia dei proprietari aveva tenuto a debita distanza l’innovazione tecnologica, sopravvive ancora, sia pure sparutamente, lo spettacolo della raccolta a mano del sale, non si sa se con scorno di chi la vorrebbe estinta per potersi fondatamente lamentare della sua sparizione.

L’esperienza transgenerazionale degli stagionali del bel tempo che fu è andata a farsi benedire, e senza di essa le macchine sfortunatamente restano ancora più convenienti dell’impiego delle squadre avventizie di odierni Kanaka che vediamo in altre filiere imprenditoriali. A beneficio di chi fosse momentaneamente turbato da amnesia a proposito di questo termine, consultando Butler troviamo che si trattava di frotte di indigeni della Melanesia che con industriosa e creativa campagna promozionale venivano ‘convinti’ a dedicarsi a stage lavorativi nel Queensland, privilegi che presentavano inoltre l’indubbio vantaggio di insegnare dal vivo un capitolo allora solitamente trascurato degli studi antichistici, elitisticamente restii all’illustrazione del lavoro servile. George Phipps, secondo Marchese di Normanby e governatore di quella landa, ebbe molto a lodare l’esperimento, così come, pressappoco negli stessi anni, ebbe a eccepire qualcosa circa l’alto valore filantropico dell’iniziativa Francesco Sceusa, un internazionalista che aveva deciso che rompere i maroni alle autorità in Australia era molto più divertente che farlo a Trapani.

Le fotografie scattate da Giorgio Vacirca alle Saline di Trapani riflettono in modo straordinario la compenetrazione tra ambiente, lavoro, uomo e macchina.
Fra il blu intenso del cielo ed il bianco abbacinante del sale la macchina ci appare intrinsecamente pertinente al lavoro umano. Neanche per un istante essa sogna di sentirsi protagonista, e se non fosse per quella figura scura, priva di volto, che si ostina a comparire in buona parte degli scatti, neppure la vedremmo.

La pala, quella sì che ci colpisce. E’ il fascino del fossile vivente che si prende la rivincita sulla sua evoluzione meccanica, per quanto entrambe siano in fondo organi aggiuntivi che l’addetto alla loro riproduzione forse ama o quantomeno rispetta.

Colori, costruzione dell’immagine e situazioni richiamano alla mente un celebre quadro dipinto da Telemaco Signorini nel 1864, L’Alzaia. L’allora ventinovenne pittore toscano rende con drammatica evidenza la compresenza, nello stesso istante e nello stesso spazio, della sovrumana fatica e dell’inumano distacco da essa: padre e figlia, così intrinsecamente diversi dai cinque Nessuno che tirano la carretta prima ancora che una chiatta, non possono avere niente a che vedere con loro, ed infatti guardano da un’altra parte. Fra i due gruppi, una macchia: un cane che ha evidentemente puntato qualcosa, forse una biscia, contro cui abbaia.

Anche in una delle foto di Giorgio Vacirca c’è una madre che indica qualcosa al figlio, mentre la macchina rovescia un getto di sale su quel cumulo che sarà per qualche tempo dimora dei “monzelli di sale” che dall’altra parte dell’immagine attendono di congiungersi a lui. La piccola macchia sullo sfondo con la pala in mano ha puntato qualcosa, ma pare palesare maggiore distacco del cane di Signorini.

Altrettanto protagoniste delle foto di Giorgio Vacirca sono le ombre che si divertono a scimmiottare movimenti e pose dell’uomo e dei diversi stadi evolutivi del suo succedaneo. Ognuna di esse fa quel che gli pare e non si capisce se lo faccia in ottemperanza ad un preciso e preordinato disegno o se ciò rifletta il dominio dell’estemporaneo.

Anche in questo caso torna alla mente un dipinto di Signorini, “La sala delle agitate nell’ospizio di San Bonifacio”, posteriore di un solo anno all’Alzaia. L’istituto era sorto a Firenze nel 1388 come Ospedale, ad opera di un tal Bonifazio Lupi, il quale di mestiere faceva il capitano di ventura ma, a detta di Matteo Villani che lo conobbe, era “uomo solitario e di poche parole, ma di gran cuore e savio consiglio. A metà del ‘600 piacque istituire un servizio di assistenza ai dementi, fino ad allora scaraventati a morire nel Carcere delle Stinche; che si trattasse di un progresso si evince da una statistica di fine ‘700: sui 604 ospiti del triennio 1785-1787 ne morirono appena 200, il 33% (ma le donne morte furono 103 su 212 ricoverate, il 48%, mentre dei 392 uomini morirono solo in 97, il 24%). Fatto tesoro di tale progresso e mercé l’assunzione del valoroso medico Vincenzo Chiarugi, nel 1789 venne emanato il Regolamento dei Regi Spedali di Santa Maria Nuova e di Bonifazio. Alla pagina 304 spicca un passo che ancora oggi suscita emozione ed ammirazione: il Primo Infermiere (cioè il Direttore Sanitario) Avvertirà scrupolosamente, che niun Ministro, Professore, Assistente, Servente, o altra Persona addetta allo Spedale o estranea, ardisca mai per qualunque occasione, o sotto qualunque pretesto percuotere i Dementi, dir loro ingiurie, provocarli, specialmente nel tempo delle maggiori loro furie, o far loro burle di alcuna sorte, e di obbligarli a servire lo Spedale, specialmente in cose laboriose, senza l’espressa licenza del medesimo Infermiere, quale talora potrà ordinar ciò forse per medicamento, per sollievo, e talora per prova di simili Individui, senza lasciarlo mai a disposizione o capriccio dei suoi subordinati ”. Il dipinto di Signorini sembra l’istantanea di una rappresentazione teatrale in cui ciascuna delle diciotto attrici è impegnata a sostenere una posa diversa ed indipendente da quella delle altre, quasi esse non fossero compresenti. Analogamente, le ombre nelle foto di Giorgio Vacirca amano disinteressarsi di oggetti e persone a cui nominalmente sarebbero legate, preferendo sembrar traslate dalle scene di teatro tanto frequenti nella ceramica greca antica.

Del resto Samuel Butler, venuto qui per esplorare luoghi, andando appresso alle tracce di Nessuno finì per scoprire (almeno, di questo egli, partito misogino dall’Inghilterra, si convinse) che a scrivere l’Odissea era stata una giovane, nubile ed autoritaria donzella di queste parti.

Non sappiamo quale volto si celi nell’ostinata ombra coronata da un cappello di paglia, e forse il fascino di queste foto sta proprio lì: l’ultimo, o quasi, rappresentante umano della specie Salinensis Drepanita attende al suo lavoro in rappresentanza e per conto di tutti coloro che vi hanno atteso prima di lui. Nelle numerose foto di altre epoche i loro volti sono ben visibili, ma in realtà noi non li (ri)conosciamo. Forse tra qualche milione di anni verrà formulata l’ipotesi che quei bipedi zampettanti nelle vasche fossero una variante locale stanziale di fenicotteri migranti, caratterizzata da strani arti delegati alla ricerca del cibo ed alla sua conservazione in cumuli, chiaro segno di un culto delle montagne.

Prof. Renato Lo Schiavo