Giorgio, l’occhio, il cuore, la mente, le foto – Omaggio a Giorgio Vacirca fotoreporter

Trapani, Trenta Agosto Duemilaventidue

Scrivere con questo caldo, alle nostre latitudini, è un’operazione difficile sebbene si viva dentro una stanza resa fresca artificialmente.

I due reportage di Giorgio, “Un altro Mondo” e “Adriatico”, hanno sicuramente in comune questa condizione, cioè la temperatura ambientale molto alta, ma, al contrario, non sono nella possibilità di utilizzare un artificio per provare ad equilibrarla.
Queste due esperienze di “vita estrema”, sono state affrontate da Giorgio così come la storia dell’esplorazione fotografica, e la curiosità umana, pretendono.

Con me Giorgio collaborò, qualche anno fa, per una sua personale esplorazione sul disagio psichico.
Visse, per un mese, come utente (con attrezzo fotografico) del centro diurno psichiatrico (ero a quel tempo lo psichiatra che lo coordinava) posto all’interno del vecchio ospedale psichiatrico di quella città al confine occidentale della Sicilia: Trapani.

Insieme, così come fecero altri ben più famosi psichiatri e fotografi, decidemmo di combattere lo stigma con una macchina fotografica, con la nostra creatività e l’appoggio esterno di una rivista locale che ci accolse per fare da amplificatore all’esperienza.
Sappiamo dalla storia della moderna psichiatria che, prima di noi, Franco Basaglia, Franca Ongaro Basaglia, Gianni Berengo Gardin, Carla Cerati ed altri, avevano usato gli stessi mezzi per ben più grandi ed impegnativi obiettivi.

Eravamo negli anni 60/70 quando si mise in funzione quel “Marco Cavallo” che avrebbe condotto i pazienti fuori dal manicomio di Trieste verso la riforma della psichiatria e la promulgazione della 180.
Quelli erano i giorni in cui un movimento di volontari lavorava insieme agli psichiatri per trovare la strada che portasse ad una nuova organizzazione ed a “modalità umane di cura” per gli “alienati”. I fotografi, con gli psichiatri, con gli infermieri, ma anche con artisti di estrazione diversa, hanno sempre viaggiato insieme per raccontare, soprattutto con le immagini, quello che molti occhi non avrebbero potuto vedere.

La componente gruppale in questi lavori è necessaria non foss’altro per la sana e sodale contaminazione delle varie competenze.
Scopo di questo incedere collettivo era ed è il recupero dell’essere umano, raccontare alla società la sua storia, le violenze e le oppressioni subite, e rifletterle con forza persuasiva.
L’impatto emotivo delle foto, sull’opinione pubblica, è sempre stato importante, e, nel tempo hanno conquistato centralità all’interno dei più importanti progetti di comunicazione mediatica. Con le foto si può contribuire vieppiù, nel caso in specie, a costruire le basi culturali per la solidarietà alle popolazioni “in cammino”, e la lotta allo stigma che la “diversità” comporta.
Le fotografie come arma di “persuasione di massa”, di indignazione, di riflessione, insieme alle riprese cinematografiche, si prendono l’incarico di sottoporre alla visione la cruda realtà, anche a coloro che “non vogliono sapere”.
“Il pensiero visivo, il visual thinking” – diceva Gillo Pontecorvo – “è sempre stato considerato decisivo non soltanto per l’estetica ma anche per la psicologia; importante perché è un tipo di pensiero non logocentrico, permette cioè di sviluppare concetti e pensieri senza bisogno di ricorrere al medium verbale.

È un modo per avvicinarsi alla realtà attraverso l’utilizzazione del “pensiero per immagini” piuttosto che attraverso concetti formulati e già sviluppati “sul linguaggio verbale”.
Ogni forma d’arte è la vittoria sul caos e sull’annientamento.

Queste foto possiamo pensarle come appartenenti alla categoria fotografica del Reportage/racconto sociale, quel modo cioè, di riprodurre la realtà che ha fatto la moderna storia dell’umanità, che ha mutato molto spesso i paradigmi del “guardare la società”, che ci ha permesso, come sostiene Ferdinando Scianna, “di vedere, di sentire, di pensare in modo diverso il mondo e la vita”.
Giorgio Vacirca, propone un percorso emotivo personale, che diventa ricerca su quanto la realtà possa divenire utile se trasformata in immagini che si collocano nel frammezzo, come un ponte, tra il dolore e la gioia, tra il principio del piacere ed il principio di realtà.
“Le immagini – sappiamo – colgono particolari di senso e rilasciano sensazioni particolari che permettono a quei piccoli frammenti di diventare memoria soggettiva e collettiva”.
La foto si trasforma immediatamente in patrimonio di chi guarda, di chi diviene spettatore e complice di quel batter d’occhio, il proprio batter d’occhio.
E nella memoria si deposita.
La foto diventa per ognuno di noi la storia infinita, l’immortalità ontologica, ma anche il trasferimento di conoscenze, del patrimonio delle conoscenze storiche.

Questi “reportage” raccontano frammenti di vite, di storie. Giorgio ci permette di entrare con lo sguardo e ci accompagna dentro le storie degli altri, ci permette la trasformazione fino a farci sentire “altri”, “diversi da prima”, come diverso da prima è chi ha attraversato queste vicende umane.
Attraverso lo sguardo è possibile “ri-trovarsi” negli altri e fare loro da specchio, in un gioco di continui rimandi, in un gioco di sguardi appassionati, in un gioco di sguardi semplici o innocenti, come di chi desidera conoscere, come di chi desidera entrare nella realtà, nella propria, in quella degli altri, in punta di piedi forse, ma con decisione.

Con lo sguardo si può…una foto può… tagliarla, ricucirla, ricordarla …lo sguardo è potente, lo sguardo è quel possibile ponte tra il pensare ed il fare, potere di pensare … potere di fare.
Un ponte tra le persone, un intreccio di elementi che attraverso la mediazione dello sguardo / foto porta “immediatezza” nel rapporto tra gli esseri presenti in quel campo relazionale.
E le foto che stiamo guardando ci evidenziano segmenti di quel processo che ha permesso di portare a maturazione immediata il rapporto tra i protagonisti di quella narrazione.
“Quando l’operazione espressiva dell’arte riesce, essa ha la capacità di sottrarre al silenzio, ed alla notte, gesti, sguardi, affetti ed esperienze che altrimenti resterebbero mute, al buio, confinate nell’interiorità o chiuse nei luoghi originari di produzione”.
La possibilità di “formulare”, di dare forma rappresentativa, di trasformare in immagine, in “comunicazione visiva” il dolore, lo stravolgimento del paesaggio dell’anima, o la semplice quotidianità, fa parte di quella capacità metamorfica e sublimativa che l’arte condivide con i sogni; con la differenza che questi ultimi sono legati alla transitorietà, l’opera, al contrario resta.

Mantenendo lo sguardo su questi frammenti- sequenza, riusciamo a cogliere, come per un riverbero speculare, le sensazioni, gli scenari da cui sono stati espunti questi ritagli di esistenza, e se “fissiamo” lo sguardo, riusciamo a sentire cosa l’immagine “ci dice”.
Sentiamo la voce, il fruscio, i rumori, le grida, persino il profumo o la puzza.
Come veri e propri deliri, o pure allucinazioni.
Le immagini parlano a chi le guarda, come se avessero la vita con sé.

Frammenti di parole, frammenti di suono, frammenti di odore, poi… ciascuno di noi, finisce per “rimontare” tutto nella propria retina, e poi, ancora, nella propria storia.
Nella propria storia personale, esperenziale, professionale, “sociale”.

Grazie Giorgio per averci permesso di entrare con te in quei luoghi, in quelle vite, in quelle anime belle! (G.G.C.)

Giorgio Geraci Camalò
Psichiatra – Trapani
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